Una commedia amara e acuta di grandi risate e profonde riflessioni. Un bilancio, a trent’anni dalla legge Basaglia, sulla difficile gestione dei disabili mentali tra le quattro mura domestiche.

Lo spettacolo teatrale
Dopo gli apprezzamenti della stampa e del pubblico romano, giovedì 30 Gennaio 2014 ha debuttato al Teatro Martinitt di Milano lo spettacolo Una casa di pazzi di Roberto D’Alessandro. La commedia, dal risvolto amaro, coinvolge su diversi piani emozionali: essa racconta con comicità e disperazione la storia di due fratelli, Attanasio e Remigio, che vivono da poco sotto lo stesso tetto, a seguito della morte del vecchio padre, che sul punto di andarsene raccomanda ad Attanasio di prendersi cura del fratello malato di mente, ormai rimasto solo nella casa padronale.
Da qui Attanasio inizia ad affrontare un momento critico di vita, caratterizzato dalla nuova interazione con Remigio, malato di ossessività compulsiva. Precedentemente ignaro della reale condizione di malattia del fratello, lasciato alla cura al vecchio padre, Attanasio incorre ora nella difficoltà di gestire l’irrazionalità comportamentale di Remigio, che peggiora involontariamente anche l’equilibrio matrimoniale già precario tra il fratello e la moglie Maria Alberta.
La disperazione di Attanasio, lasciato solo a gestire una situazione più grande di lui, è in primis causata dall’assenza di un sostegno da parte delle strutture sanitarie e dei servizi sociali di riferimento, che latitano nell’aiutare i parenti nella gestione e nella cura dei familiari malati di mente e il cui mancato operato viene stilizzato dall’autore stesso nella frase fatta dire da Attanasio: “la faceva facile Basaglia” facendo riferimento a tutto il trascorso storico e al dibattito ancora aperto sulla incompletezza della legge 180, voluta da Franco Basaglia nel 1978 e di cui mi appresto a riportarne alcune considerazioni, anche a fronte dello spettacolo in questione e del finale significativo che lo caratterizza e che tanto fa parlare.

"Una casa di pazzi" - foto di scena
“Una casa di pazzi” di R. D’Alessandro

Lontani dagli occhi, lontani dal cuore
L’applicazione della legge Basaglia ebbe come importante conseguenza la chiusura dei manicomi: luoghi fisici dove non solo i malati mentali venivano rinchiusi a vita, torturati, emarginati e non curati, ma anche luoghi astratti, scatole di pensiero, cassetti risolutivi, che si aprivano e si chiudevano ogni qualvolta a quei tempi una famiglia si trovava ad affrontare il problema di un parente malato, una persona che da quel momento in poi non sarebbe più appartenuta a nessuna categoria sociale tra quelle pensabili ai tempi. Il malato mentale diveniva di fatto una persona indefinita, un escluso.
Nella storia, l’incapacità di affrontare il problema da parte della società trovò per molto tempo la soluzione del ricovero in manicomio. Esclusione e reclusione facevano così dimenticare il malato.

Aprite quella porta
La legge 180 e la chiusura dei manicomi diede sicuramente all’immaginario collettivo della società una visione del tutto nuova del malato mentale.
Basaglia ricondusse le cause delle diverse psicosi a fattori sociali e genetici dell’uomo e indicò l’integrazione sociale come presupposto per un possibile miglioramento delle condizioni di malattia. La legge prevedeva l’organizzazione di strutture ospedaliere di ricovero alternative ai manicomi, reparti di psichiatria specializzati, distribuiti in tutto il territorio nazionale e regolati dalle amministrazioni regionali di competenza.
Queste strutture però non furono operative per tempo, gli stessi pazienti liberati dai manicomi finirono per strada e divennero per lo più barboni ed emarginati sociali. Basaglia morì precocemente e non fece in tempo a vedere le conseguenze provocate dall’applicazione della sua legge, conseguenze in cui sprofondarono i malati e le loro famiglie, uniche vere raccoglitrici della difficoltà reale del problema.

"Una casa di pazzi" di R. D'Alessandro
“Una casa di pazzi” di R. D’Alessandro

Troppo idealismo?
La 180 in effetti trattò alcuni aspetti fondamentali con troppo idealismo e poca concretezza, forse a causa dell’inesperienza che all’epoca si aveva nella gestione dei soggetti psichiatri all’interno della società.
Troppa fiducia venne risposta nell’amministrazioni pubbliche locali, le quali ritardarono, in diverse regioni italiane, la costituzione di un programma operativo su cui basare i protocolli di ricovero e assistenza psichica dei pazienti, anche a causa della carenza di costruzioni ospedaliere pronte all’accoglienza dei nuovi reparti.
Mentre totalmente assenti o poco influenti furono i servizi sociali statali, contratti tra la disorganizzazione, il disorientamento e l’applicazione della legge stessa che li affollò di casi umani, senza fornire loro gli strumenti adeguati per gestirli.
Negli anni, questo servizio fu compensato dalla crescita spropositata di associazioni familiare dei malati, costituitesi e finalizzate all’aiuto delle famiglie abbandonate dallo Stato.
Un altro aspetto critico della 180 fu, ed è tutt’oggi, il ridimensionamento del periodo di ricovero forzato, stabilito a priori dalla legge e valido in egual misura per tutti i pazienti affetti da patologie gravi e violente. In alcuni casi infatti la permanenza ospedaliera, che imposta e assicura al malato la terapia continuativa, non è risolvibile nei soli 7, massimo 14 giorni previsti dal decreto.
Vi sono di fatto condizioni patologiche che necessitano un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) più duraturo, poiché ingestibili e incurabili in ambiente domestico o in centri di igiene mentale.Con ciò, il vincolo temporale del TSO, la cui continuità terapeutica è assoggettata alla scelta arbitraria del paziente, finisce con il non migliorare minimamente la situazione patologica del malato, che nella maggior parte dei casi decide di abbondonare la struttura, terminato il periodo obbligatorio, e di tornare nella propria abitazione, riportando la famiglia nella difficoltà di affrontare nuovamente il problema della gestione e delle cure.

La sottile linea d’ombra fra libertà e dignità
Oggi il dibattito più accesso sulla legge Basaglia verte proprio su questo punto: considerare illegale la possibilità di ricovero forzato e prolungato per i pazienti gravemente malati.Per alcuni, infatti, ricorrere a ciò, significa violare la dignità e la libertà umana, per altri invece è errato porre sullo stesso piano due dimensioni mentali totalmente opposte: razionalità e irrazionalità, ragione e pazzia.

L’orrore dei manicomi indusse Basaglia ad affrontare la questione su un piano razionale e di dignità umana, pensando che riconoscere giuridicamente ai malati i diritti fondamentali dell’uomo potesse essere una soluzione, un modo per discolparsi dagli errori commessi dalla società e dalle strutture manicomiali.
L’obbligo del ricovero coatto fu considerato illegale, se non in casi rarissimi di violenza, e di fatto l’autoconsapevolezza del malato divenne la base per ogni terapia continuativa.

"Una casa di pazzi" di R. D'Alessandro
“Una casa di pazzi” di R. D’Alessandro

Come far ragionare un pazzo
Il riconoscimento della dignità e il rispetto nei confronti delle persone affette da psicopatologie è indubbio e fondamentale in ogni società civile che si rispetti, ma lasciare totale libertà di arbitrio in una condizione di pazzia, mette tutt’oggi nella possibilità di agire su un piano razionale una persona che la ragione non ce l’ha.
Pertanto, essendo questa non in grado di intendere e volere, spesso finisce con il ritenere inopportuna la cura, “perseverando” così in atteggiamenti psicotici e rischiosi per se stessa e per gli altri.
Le conseguenze sono gravissime: sono tantissimi infatti in tutta Italia i casi di pazienti in questa condizione, che vivono a casa con le loro famiglie; famiglie sole, disperate, sfasciate, che a loro volta si ammalano per la disperazione. Mariti, moglie e figli che amano i propri cari, con i quali cercano ripetutamente di istaurare un dialogo razionale per convincerli alle cure, come Attanasio che asseconda i giochi folli del fratello Remigio, sperando che si decida ad andare dal dottore.
Ma non è così, la pazzia non si ferma, non cambia, non c’è modo di convincere nessuno e noi siamo impotenti di fronte all’autodistruzione delle persone che amiamo, ci si spezza il cuore e la vita e l’inadeguatezza delle nostre azioni ci fa sentire incapaci e soli.

"Una casa di pazzi" di R. D'Alessandro
“Una casa di pazzi” di R. D’Alessandro

Dov’è il manicomio di oggi
E allora mi chiedo: dove c’è dignità in tutto questo? Dove c’è dignità nel perseverare la condizione di malattia per i nostri cari?
Il manicomio oggi si è trasferito nelle nostre famiglie: il manicomio dei sani o la casa dei pazzi, in cui l’unico modo per affrontare il problema è impazzire allo stesso modo oppure scegliere di non curarsi più di nulla, come il povero Attanasio, alla fine dell’amara e acuta commedia di Roberto D’Alessandro.
Il tanto discusso finale di questo spettacolo non lascia vie di scampo, esso racchiude in sé tutta l’impossibilità che esiste nel risolvere il problema da soli, nella totale ignoranza, nell’incomprensione e nell’indifferenza del mondo esterno e delle istituzioni, che ancora a distanza di anni non fanno nulla per modificare questa legge.

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Viviana Gagliardi

La foto in copertina è di Francesco Mazza.