“La commedia inizia lentamente, in un tempo e in uno spazio sospeso, quasi indefinito, attutito e reso suggestivo dalla bellissima scenografia di Mauro Paradiso, che ci porta al di qua di una immensa vetrata dietro la quale vivono centinaia di pesci in perenne movimento, tra i quali un fantomatico delfino bianco, forse soltanto un ideale di perfezione utopica.”
(Fonte: “Come tre aringhe. Tre uomini, un delfino bianco.” di Paolo Leone, Corrieredellospettacolo.com)“Scenografia molto poetica quella di Mauro Paradiso”
(Fonte: “Come tre aringhe, il mistero del delfino bianco!” di Claudia Conte e Emanuele Ajello, Corrieredellospettacolo.com)
Prima intervista di Commedieitaliane dedicata ad una professionalità tecnica del settore.
È l’emergente Mauro Paradiso – classe 1982 – scenografo teatrale e non solo: ne ripercorriamo i primi intensi anni di carriera, dal suo esordio come volontario sul set di Tinto Brass all’ultimo lavoro teatrale, la suggestiva e poetica scena di “Come tre aringhe” di Marco Falaguasta e Mauro Graiani.
I.-Raccontaci un po’ di te, per quante e quali commedie hai già progettato le scene, quali sono state le tue preferite, quali gli ultimi lavori.
M.P.-Dopo aver frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Bologna, raggiungo Roma nel Maggio del 2005, inizio facendo l’assistente volontario per un film per il cinema (Monamour di Tinto Brass). E da quel giorno sono passati 9 anni.
Via via ho eseguito – sia da assistente che da scenografo – molte scenografie teatrali (non solo commedie).
La prima fu per uno spettacolo con la regia di Giancarlo Sepe, inutile dirvi che emozione fu lavorare con un maestro del genere.
Non ho scenografie preferite… l’approccio è sempre lo stesso… una grande passione.
Però posso dire che preferisco scene in cui posso giocare… diciamo che non amo essere un semplice esecutore.
I.-Scenografo teatrale, per scelta o per caso?
M.P.-Difficile rispondere… per caso sono arrivato in teatro, ma di fare lo scenografo l’ho scelto da quando avevo più o meno 10 anni.
I.-Secondo il tuo particolare punto di vista, la commedia è ancora oggi un genere teatrale a sé? Esistono oggi distinzioni tra i generi drammaturgici?
M.P.-Il problema in Italia è che bisogna fare “distinzioni”: diciamo che esistono diverse forme di teatro. L’approccio, ripeto, è lo stesso. Ho sempre detestato chi dice “no io faccio solo cinema… il teatro no… non si fa una lira”. Anche se è vero che con il teatro si guadagna poco, è altrettanto vero che l’emozione dell’apertura del sipario non te la dà nessun set cinematografico. Ho sempre voluto spaziare dal cinema, alla tv, alla pubblicità, al teatro… faccio lo scenografo non l’impiegato, se non mi diverto io a cambiare posto di lavoro e datore di lavoro, chi altri…
I.-Credi che la scena abbia lo stesso peso in una commedia rispetto ad uno spettacolo di altro genere?
M.P.–La scena, come i costumi e le luci, sono attori invisibili che vivono il palco: meritano lo stesso rispetto che si ha per chi ci mette la faccia, mi riferisco agli attori. Creare una scena che non aiuta lo spettacolo, che infastidisce, o semplicemente sbagliata per ciò che invece il testo necessita, è come passare con il rosso… una grande infrazione. Quindi per me il peso è lo stesso per ogni genere e per settore.
I.-Di solito per le commedie vengono allestite scenografie “didascaliche” , credi che una scena più “concettuale” possa funzionare comunque per il genere comico?
M.P.-Non voglio fare esempi. Ma è da tempo che dico che la ricostruzione classica , il buon compito accademico, ha stancato. La recitazione è cambiata, le luci sono cambiate, i registi sono cambiati e perché non dovrebbe succedere anche alla scenografia?
Io trovo spesso poco stimolante eseguire in maniera didascalica ciò che il testo richiede, perché ricerco l’anima del testo tra le parole dell’autore e, nel rispetto delle sue idee, aggiungo un pizzico di azzardo!
Diciamo che una commedia sarebbe divertente anche senza i soliti divano, tavolino, finestra, porta (categoricamente tutto marchiato Ikea). Ma è altrettanto vero che quinte nere e una poltrona non è il mio ideale di “concettuale”. Dico sempre che si possono trovare materiali poveri, ma che creano ricchezza.
I.-Quali sono le tue fonti di ispirazione? Ti ispiri a qualcuno in particolare?
M.P.-Sono un buon osservatore, e spesso rubo dal quotidiano. Mi sento una spugna, diciamo che assorbo da tutto ciò che mi circonda e poi lo filtro con la mia sensibilità o vena artistica, come spesso sento dire.
I.-Come avviene il processo creativo? Solitamente, presenti tu per primo i bozzetti al regista oppure ti lasci influenzare dalla sua idea prima di metterti a disegnare?
M.P.-Dipende, se è la prima volta che lavoro con quel regista oppure no. Se lo conosco diciamo che azzardo subito, tanto ne conosco i limiti e le potenzialità registiche. Nell’ultimo caso (ndr. “Come tre aringhe”) era la prima volta che lavoravo con Marco Falaguasta. Il primo bozzetto è avvenuto dopo la lettura del copione e dopo un lungo caffè con Marco. Era fedele al testo, ma sentivo che mancava l’anima di questi tre personaggi, allora ci siamo rivisti più volte, confrontati sulle sue necessità, e dopo altri 5 bozzetti, siamo arrivati a questa conclusione. E ne sono entusiasta. Diciamo che amo i registi che azzardano, e che si fidano dello scenografo.
I.-Quanto ha influito la crisi del settore sul tuo lavoro? Come e dove hai trovato soluzione alternative alle riduzioni di budget delle produzioni teatrali?
M.P.-Ha influito moltissimo! Sempre più spesso si parte da un grande progetto per poi sfrondare tutto e arrivare al nocciolo. Questo non vuol dire che ci si accontenta, anzi, si cerca lo stesso risultato con materiali diversi. È lì che ci si diverte. O meglio è lì che mi diverto io. Aggiungo solo che detesto Ikea anche perché i mercatini dell’usato offrono cose molto più interessanti e spesso costano anche di meno.
M.P.-Non è stata la mia prima volta, già in un altro spettacolo mi era capitato, ma devo dire che non amo molto le proiezioni, raffreddano la scena. A meno che, come in questo caso, non le amalgami bene a tutto il resto.
Il lavoro complice che c’è stato tra me e Marco Laudando (light designer) è stato fondamentale, non volevo un fondale bianco con la proiezione di pesci, volevo che si vedesse la struttura scenica della vasca. Ci siamo riusciti? Ditelo voi!
I.-La commedia ha ancora la capacità di raccontare il presente?
M.P.-Si, lo può fare. Diciamo che non amo la retorica a tutti costi: si può far ridere senza parolacce e si può far pensare senza fare la morale.
I.-Come vedi il tuo futuro in teatro? Continuerai sempre a progettare scenografie per commedie?
M.P.-Un lungo futuro… se me ne daranno occasione. Sono già immerso in altri lavori che, per scaramanzia, non voglio accennare…
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Elisa Abbadessa e Sara Terzulli